Chiamiamoli eventi possibili, non estremi
– Enzo Pranzini*, 20.05.2023
Le pianure alluvionali sono certo siti ottimali per insediamento, facilità di
trasporto, di coltivare, disponibilità di acqua. Ma ci sarà una ragione per cui si chiamano
«alluvionali»?
Anche se l’acqua si ritira rapidamente, le ferite inferte da un’alluvione ad un territorio
richiedono molto tempo per rimarginarsi; in particolare quelle subite dalla popolazione, sia
nelle sue componenti materiali ed economiche, sia nel cuore stesso della gente.
L’alluvione del Polesine, del 1951 e quella di Firenze, del 1966, sono ancora presenti, non solo nella
mente di chi le ha vissute, ma anche nel comune sentire di quelle popolazioni.
Si potrebbe dire che sono i governi, teoricamente espressione del popolo, che
dimenticano rapidamente; ma se si continuano a costruire case negli alvei fluviali o in zone
depresse nelle pianure alluvionali e i cittadini le comprano, è segno che la cultura generale
in materia ambientale non ha fatto tesoro delle esperienze passate.
Sembra comunque che il tempo per dimenticare non ci sia più concesso, ed eventi chiamati
‘estremi’ si ripresenteranno con sempre maggiore frequenza. Definirli estremi non è altro
che un alibi per giustificare il fatto che non abbiamo fatto niente, o molto poco, per
prevenirli o per mitigarne gli effetti: quegli eventi devono essere definiti ‘possibili’, anche se
con basse probabilità di accadimento.
E se un evento può arrecarci un grave danno, anche se è poco probabile che si verifichi
proprio domani, non dobbiamo sottovalutarlo: chi prenderebbe un aereo sapendo che vi è
‘solo’ una probabilità su cento che possa cadere? Però finiamo col basare le nostre scelte
sugli scenari più probabili e non su quelli più catastrofici.
«Ma la Terra è un pianeta abitabile?», ci chiedevamo nella rubrica Attenti ai dinosauri
due anni fa, in seguito ad una serie di eventi ‘possibili’, fra cui l’uragano di Pantelleria.
Ricordavamo che le pianure alluvionali costituiscono certamente siti ottimali per
l’insediamento, facilità di trasporto, possibilità di coltivare, disponibilità di acqua. Ma ci sarà
una ragione per la quale si chiamano «alluvionali»?
Per impedire l’esondazione dei fiumi, che depositando i sedimenti nel proprio letto lo
innalzano in continuazione, abbiamo costruito degli argini che hanno portato il corso
d’acqua a scorrere più in alto della propria pianura, mettendo così in grave pericolo tutti
quelli che vivono ad un livello più basso.
La rottura degli argini del Po nel 1951, che procurò un centinaio di vittime e oltre
180.000 senzatetto, non è stata sufficiente a farci capire che la sicurezza non si ottiene
incanalando l’acqua verso il mare, che fra l’altro si sta innalzando, ma portando le
popolazioni a vivere in zone rialzate. Se questo non è possibile per le aree urbane, si
dovranno prevedere estese superfici, assai più grandi delle attuali casse di espansione, da
mandare sott’acqua per salvare le città, come hanno fatto in Olanda. Per chi ci viveva si
fanno nuove case in aree sicure, mentre per chi deve restare, queste si pongono su
collinette artificiali che, all’occasione, diventano isole.
Si dice che il territorio italiano sia estremamente fragile, e anche questo termine andrebbe
rivisto: è un territorio in naturale evoluzione morfologica, forse più rapida di altri. Siamo noi
che siamo fragili, perché spesso ci siamo insediati proprio in quelle aree dove più rapida è
questa evoluzione, come i versanti di rilievi costituiti da rocce erodibili, lungo i fiumi che
naturalmente cercano di cambiare il proprio corso, e sulle coste, da sempre l’elemento più
dinamico del territorio e ora colpite anche dall’innalzamento del livello del mare.
Aiutati o meno da leggi compiacenti alcuni settori economici, ma anche nella ricerca del
consenso di cittadini non sufficientemente consapevoli dei rischi a cui andavano incontro,
abbiamo disboscato le montagne, tagliato i versanti con strade senza tener conto
dell’assetto geologico, strizzato i fiumi con argini, case, fabbriche e ponti, demolito le dune
costiere per costruire villaggi turistici e passeggiate a mare. Ed anche nelle zone agricole,
che ci illudiamo conservino ancora un minimo di naturalità, abbiamo fatto il possibile per
aumentare il rischio idraulico.
Ci ricorda Pancho Pardi, in un volumetto sul Paesaggio di prossima uscita con Manifestolibri,
che ‘i vigneti, in origine disposti a girapoggio lungo le curve di livello ora fuggono paralleli
dall’alto al basso secondo il moderno rittochino, molto più comodo per i trattori, ma
formidabile dissipatore di suolo’ e, aggiungiamo noi, di acqua. E quando da lontano si
vedono quei paesaggi che ricordano le basi lunari dei film di fantascienza, con chilometri e
chilometri di serre con tetti di plastica che impermeabilizzano il suolo, non meno degli
edifici e delle strade della città, non pensiamo a che fine farà l’acqua del prossimo
temporale?
Questi eventi ‘possibili’, con il riscaldamento climatico stanno diventando sempre più
intensi e ricorrenti, e la ‘nuova normalità’ alla quale dobbiamo abituarci, non è tanto quella
post-COVID, di cui molto si è parlato, quanto quella che ci attende nei prossimi anni per il
riscaldamento globale, della quale troppo poco si parla.
*Docente di Dinamica e difesa dei litorali all’Università di Firenze, membro della task force
“Natura e Lavoro”
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