“Io stesso sono un religioso, ma la religione non può, da sola, fornire una risposta a tutti i nostri problemi.” A dirlo, inaspettatamente, è il leader spirituale della sesta confessione al mondo, il buddismo. In questo libro il Dalai Lama lancia un messaggio rivoluzionario: per superare gli scontri fra religioni, le polemiche tra atei e credenti, il razzismo e l’intolleranza in nome della fede, l’unica soluzione è andare al di là della religione. Unendo la profonda conoscenza degli altri credi alle più recenti scoperte della scienza, Sua Santità giunge a una conclusione tanto semplice quanto illuminante: non possiamo cambiare il mondo limitandoci alla preghiera; oggi è necessario affidarsi a un diverso sistema etico che, trascendendo ogni credo, affondi le radici nella compassione, nella tolleranza e nel rispetto reciproco. Le problematiche che dobbiamo affrontare sono molto più complesse del contrasto fra ateismo e religiosità. La nuova via suggerita dal Dalai Lama è quella di congiungere la compassione (il principio spirituale da cui nascono gli altri valori interiori) alla ragione per dare origine a un sistema di etica laica che – indipendentemente dalla fede o dalla sua assenza – informi le azioni di tutti, dalle persone comuni a chi ha compiti di responsabilità e governo. Solo apprezzando la nostra comune umanità potremo vivere in armonia e trovare la felicità.
Giustizia
La maggior parte di noi riconosce la giustizia quale principio universale imparziale, basato sulla fondamentale uguaglianza di tutti gli uomini, che questa sia di fronte al volere di dio, o riguardi la naturale aspirazione alla felicità e alla fuga dalla sofferenza, oppure l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Tuttavia, il consenso sembra meno unanime rispetto all’effettivo esercizio della giustizia in termini di crimine e punizione. Per esempio, le posizioni circa la pena di morte e lo scopo della punizione non sono certo unanimi; c’è chi pensa che alcuni delitti siano talmente orribili ed efferati che il colpevole non merita alcuna misericordia.
Crimini e religioni
Quando si tratta di crimini, tutte le principali religioni mondiali esprimono un qualche concetto di riparazione o risarcimento, volto a ristabilire l’equilibrio in questa vita, oppure in una prossima. Secondo le tradizioni teiste, a un certo punto dovremo tutti sottostare a un giudizio divino. Negli insegnamenti buddisti tradizionali, la legge del karma assicura che ogni individuo finirà con lo sperimentare i frutti delle proprie azioni. Entrambe queste credenze prevedono che nella valutazione delle faccende umane sia accordata misericordia. ma da un punto di vista laico, che esclude la presenza di punizioni e ricompense nell’aldilà, dobbiamo domandarci quale sia il vero significato della punizione. Si tratta di castigo e vendetta, cosicché l’unico scopo sia la sofferenza di chi ha commesso un reato? Oppure si vuole evitare che perpetri altri crimini? Per come la vedo io, l’obiettivo della punizione non deve essere la sofferenza fine a se stessa; la pena dovrebbe avere un intento ben più elevato, ovvero scoraggiare il malfattore dal ripetere le azioni negative di cui si è reso responsabile e nel contempo trattenere altri dall’imitarlo. la punizione dovrebbe quindi essere un deterrente, anziché un castigo.
La giustizia come deterrente
Le corti di giustizia devono poter disporre degli strumenti necessari per sanzionare chi si macchia di un reato. Lasciare impuniti crimini terribili come l’omicidio e la violenza fisica implicherebbe l’idea che il potenziale peggiore dell’umanità sia in qualche misura accettabile, e ciò danneggerebbe tutti, compresi gli stessi responsabili di quei delitti. La punizione ha un ruolo importante e inevitabile nella regolamentazione delle questioni umane, sia in quanto deterrente sia per infondere nei cittadini un senso di sicurezza e di fiducia nella legge.
Misfatti e relative punizioni
Tuttavia, se la punizione dovesse fungere soltanto da deterrente, si potrebbe ipotizzare che anche i reati minori debbano ricevere severe condanne, in modo da scoraggiare il più possibile i comportamenti antisociali. sebbene questo sia un espediente per garantire una diminuzione della criminalità, è un approccio che non condivido. Non ritengo giusto punire qualcuno molto severamente per un misfatto di lieve entità. Ci si dovrebbe invece sempre affidare al senso delle proporzioni: più grave il delitto, più aspra la pena, ma ciò solleva un interrogativo: fino a che limite ci si può spingere? A tale proposito, penso sia molto importante riconoscere che tutti gli esseri umani possono cambiare, ragion per cui trovo inaccettabile l’idea della pena di morte.
Amnesty International
Ecco perché ho sostenuto la campagna di Amnesty International volta alla sua abolizione. Non si tratta di pura e semplice clemenza: a mio parere, uccidere altri esseri umani per punirli, indipendentemente da ciò che hanno fatto, non può essere giusto, perché preclude loro la possibilità di cambiare. Sono convinto che la società abbia invece tutto l’interesse nel continuare a concedere loro tale possibilità.
Vendetta e perdono
Certo, mi rendo conto che una reazione violenta, per esempio a un’aggressione, è qualcosa di profondamente radicato nell’istinto umano. In questo non siamo diversi da altri animali che, se messi alle strette, combattono fino alla morte. La pratica della vendetta mi sembra però una caratteristica tipicamente umana, correlata alla nostra capacità di ricordare. Nelle comunità primitive, forse la ritorsione poteva essere necessaria per garantire la sopravvivenza, ma con l’evolversi della società abbiamo gradualmente riconosciuto che la vendetta ha conseguenze negative, mentre il perdono è molto più proficuo. Penso che sia proprio questo il vero significato di «civilizzazione».
Credo quindi che perseguire la vendetta, lasciando libero corso ai nostri impulsi più violenti, sia fuorviante e non comporti alcun vantaggio per nessuno. Infatti, l’unico risultato garantito di un tale comportamento è spargere i semi di ulteriori conflitti. La vendetta fomenta il risentimento, e con questo il pericolo di un’escalation di violenza e ritorsioni, che può essere spezzata solo quando si mette da parte il principio stesso di vendetta. Soddisfare il desiderio di vendicarsi produce un’atmosfera carica di paura, rancore e odio.
Il perdono: una via per la pace
Per contro, laddove c’è il perdono, esiste anche una possibilità di pace. Ecco perché ritengo che nell’esercizio della giustizia non debba esserci spazio per il concetto di ritorsione, che è obsoleto. dobbiamo invece comprendere che, mentre la vendetta indebolisce la società, il perdono la rafforza.
Nelson Mandela e Desmond Tutu
Tutto ciò trova un esempio lampante in quanto è accaduto in Sudafrica, dopo lo smantellamento del sistema dell’apartheid. Grazie alla saggezza con cui Nelson Mandela ha guidato il Paese, l’African National Congress ha agito con magnanimità, facendo in modo che la minoranza bianca non subisse alcuna forma di vendetta e, alla luce dei fatti, gli incidenti sono stati limitati. Se i nuovi leader avessero scelto di indulgere nel passato, favorendo un clima carico di risentimento, ne sarebbe scaturita una vera e propria tragedia. invece, il governo ha fondato la Commissione per la Verità e la Riconciliazione, guidata dall’arcivescovo Desmond Tutu, mio vecchio amico e confratello spirituale.
Un esempio morale
Seguendo il suo esempio morale, la Commissione si è messa all’opera affidandosi al principio che l’ammissione della piena verità da parte dei responsabili di crimini gravi, se non addirittura di atrocità, avrebbe avuto un effetto terapeutico e liberatorio sia per le vittime sia per gli autori stessi di quei delitti. Oggi, a dieci anni dalla conclusione dei lavori della commissione, non c’è più motivo di dubitare del successo di un’operazione che ha arrecato pace e permesso di voltare pagina a un’infinità di persone, vittime o carnefici che fossero. Ho avuto il grande onore di incontrare il presidente Mandela subito dopo che il suo Paese si è liberato dal regime di discriminazione e segregazione razziale. Sono stato fortemente impressionato non solo dalla sua gentilezza, ma anche dall’assoluta mancanza di qualsiasi forma di risentimento nei confronti delle persone che l’hanno tenuto per lungo tempo in prigionia. A mio parere, non c’è dubbio che l’esercizio della giustizia, lungi dall’essere in contrasto con il principio della compassione, debba invece esserne permeato.
Compassione e pietà
Non dimenticherò mai la spiegazione che il Ministro della giustizia scozzese mi diede riguardo alla difficile decisione di liberare l’uomo che era stato condannato per l’attentato terroristico di Lockerbie. Mi spiegò che nel suo Paese tutti «volevano giustizia e desideravano che tale giustizia fosse temperata dalla compassione e dalla misericordia». Sono ben consapevole del fatto che quella decisione ha causato notevoli controversie e suscitato molte ire, in particolare tra i famigliari delle vittime. Nondimeno, penso che l’affermazione del ministro fosse del tutto solida: quando si tratta di giustizia, la compassione e la pietà non devono essere spazzate via in un colpo solo.
Tratto da «La felicità al di là della religione. Una nuova etica per il mondo»
di Gyatso Tenzin (Dalai Lama) (Autore), S. Orrao (Traduttore)
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