Cerchiamo di capire cosa provoca la felicità, perché quando c’è abbiamo tutto, altrimenti facciamo di tutto per possederla
Chi di noi desidera soffrire? Chi si sveglia la mattina e si augura: «Che io possa sentirmi insoddisfatto per tutta la giornata!»? Più o meno consciamente, in modo accorto o maldestro, aspiriamo tutti al benessere, e ci sforziamo di ottenerlo in diversi modi: con il lavoro o con l’ozio, con le passioni o la calma, con le avventure o il tran tran quotidiano.
Cerchiamo, attraverso ogni attività, di vivere intensamente, tessere legami di amicizia e di amore, esplorare, scoprire, creare, costruire, arricchirci, proteggere le persone che ci sono care e tenerci alla larga da chi ci può danneggiare. Dedichiamo il nostro tempo e le nostre energie a questi scopi con l’idea di trarne una migliore qualità di vita per noi stessi e per gli altri. Desiderare il contrario sarebbe assurdo.
A monte di ogni nostra iniziativa c’è la felicità, comunque la definiamo – gioia di vivere o senso del dovere, passione o soddisfazione – e comunque tentiamo di procurarcela. Aristotele affermava: «È il solo scopo che scegliamo sempre per se stesso, e mai in vista d’altro». In realtà chiunque dichiari di aspirare a qualcos’altro non sa veramente ciò che vuole, cerca la felicità ma la chiama con un altro nome.
A chi gli chiedeva se fosse felice, Xavier Emmanuelli, fondatore del servizio di volontari che prestano soccorso a persone in difficoltà Samu social ,(nonché uno dei fondatori di Medici senza Frontiere), rispondeva: «Ma questo non rientra nel mio programma! Io mi preoccupo soprattutto di agire. Ho dei progetti da ideare, mettere in atto e portare a termine. Ciò che conta è qualsiasi cosa abbia un significato […]. La felicità è il significato, è l’Amore». Forse la felicità non rientrava nel suo programma, ma è proprio di lei che stava parlando!
Il mio amico Steven Kosslyn, ricercatore in radiodiagnostica cerebrale all’Università di Harvard, mi spiegava tempo fa che, la mattina, la prima cosa che gli veniva in mente non era l’aspirazione alla felicità, ma il senso del dovere, il senso di responsabilità nei confronti della sua famiglia, dell’équipe che dirigeva e del suo lavoro. Nel raccontarmelo, Steven insisteva a dire che la felicità non faceva proprio parte delle sue preoccupazioni. Peraltro, nella soddisfazione di portare a termine un compito con grandi sforzi e difficoltà, dedicandovi tutto se stesso, si rintracciano alcuni aspetti della felicità più autentica, ovvero ciò che viene chiamato sukha. Facendo il proprio dovere Steven non si proponeva sicuramente l’obiettivo di realizzare la propria infelicità o quella dell’intera umanità, pur essendo convinto che «difficoltà e sofferenza contribuiscono alla formazione del carattere».
È opportuno precisare che qui si tratta di senso di responsabilità, e non di quel senso del dovere paralizzante costituito da costrizioni e obblighi imposti dalla famiglia e dalla società. O della richiesta di essere perfetti per poter essere accettati e amati. Il dovere non ha senso se non è frutto di una scelta e fonte di un bene più grande. Il dramma è che spesso sbagliamo nel decidere quali metodi utilizzare, ed è proprio l’ignoranza che fa deragliare la nostra aspirazione al benessere.
Come spiega il maestro tibetano Chögyam Trungpa: «Quando parliamo di ignoranza, non intendiamo affatto riferirci alla stupidità. In un certo senso l’ignoranza è molto intelligente, ma si tratta di un’intelligenza completamente a senso unico. Voglio dire che a seguito dell’ignoranza reagiamo unicamente alle nostre proiezioni mentali, invece di vedere semplicemente le cose così come sono».
Tratto da “Il gusto di essere felici“, di Matthieu Ricard, Sperling & Kupfer , 2009, © Tutti i diritti riservati, riproduzione vietata .
di Matthieu Ricard (Autore), S. Orrao (Traduttore)