Spesso chi è al potere non è così forte come vorrebbe apparire. Molti di coloro che agognano il potere sono in realtà dei deboli. Cercano posizioni di prestigio per compensare la loro stessa fragilità e vulnerabilità. Un debole al potere non potrà mai esercitarlo in modo generoso, perché intravvede nelle domande che possono essergli poste o nelle possibili alternative una minaccia al potere che detiene e alla sua supremazia. Se vogliamo confrontarci in modo creativo con un individuo del genere, dobbiamo avvicinarlo indirettamente, e con grande delicatezza. È questo l’unico modo in cui la nostra verità può raggiungere una persona tanto potente quanto spaventata.
Il posto di lavoro come dimensione in cui si esercita il potere può anche essere un luogo in cui veniamo controllati. Il controllo è distruttivo perché riduce la nostra indipendenza e autonomia. Una figura autoritaria ci risospinge a un ruolo infantile. Se il rapporto con i nostri genitori non è stato trasfigurato, talvolta ci capita di ingigantire le persone autoritarie. Tra autorità e potere c’è una differenza cruciale. Una volta risvegliati all’integrità del nostro potere interiore, ci trasformiamo nella nostra stessa autorità. Il termine autorità significa paternità delle nostre idee e azioni. Il mondo funziona sulla base di strutture di potere, di conseguenza, sarebbe auspicabile che le persone genuine, dalla sensibilità raffinata, dotate di immaginazione e compassione i rendessero disponibili ad assumere posizioni di potere. Una persona carismatica in una posizione di grande influenza può trasformarsi in un fattore di cambiamento positivo di ampia portata.
Quando veniamo controllati, siamo trattati come un oggetto, anziché come un soggetto. Spesso le persone di potere hanno uno straordinario istinto che li porta a dirigere il sistema contro di noi. Conosco un milionario che si era arricchito nel settore dell’abbigliamento. Le donne che lavoravano per lui ricevevano un salario misero. Un giorno alzò al massimo il volume della radio, al ché tutte le operaie cominciarono a lamentarsi. Lui resto tranquillamente a osservare il fastidio crescere, finché un gruppo di rappresentanti non andò a chiedergli di abbassare il volume. Il boss rifiutò. Allora le operaie si fecero più combattive, e minacciarono di scioperare, Quand’erano sul punto di mobilitarsi e andare a protestare in strada, il boss abbassò il volume. Le donne tornarono al lavoro, convinte di aver vinto la loro battaglia che era stata scatenata dal loro padrone, sebbene egli avesse organizzato il conflitto sin dall’inizio, volendo dargli l’impressione di disporre di un qualche potere nei suoi confronti. L’episodio risale a circa quarant’anni fa. Nell’attuale mondo del lavoro, la sindacalizzazione e il riconoscimento dei diritti dei lavoratori impedisce ai padroni di servirsi di questo genere di mezzucci. Ciononostante, nell’ambito lavorativo lo sfruttamento dei lavoratori non è certo cessato, è solo cambiato il metodo: oggi i padroni elaborano strategie di controllo e alienazione molto più ingegnose.
Il posto di lavoro può anche essere caratterizzato da una grande competizione. Talvolta i manager mettono i dipendenti gli uni contro gli altri, cosicché, quando ci rechiamo al lavoro, ci ritroviamo soli a combattere contro i nostri colleghi, spesso relativamente alla produttività, finché cominciamo a percepirli come una minaccia. Allorquando la produttività diventa un dio, ogni individuo è ridotto a una funzione. Sarebbe meraviglioso se il posto di lavoro fosse davvero d’ispirazione, e stimolasse la nostra creatività. In condizioni del genere, ogni nostro talento (e ognuno di noi ha un qualche dono da offrire) sarebbe il benvenuto. La nostra esistenza sarebbe più felice, perché potremmo esprimere e far maturare il nostro talento proprio sul posto di lavoro. Inoltre saremmo liberi di trarre ispirazione dai colleghi, e , visto e considerato che ogni dono è una peculiarità dei diversi dipendenti, non ci sarebbe più nessuna competizione.
Il lavoro non dovrebbe rendere soltanto beneficio a padroni e dirigenti, ma anche ai lavoratori e alla comunità. Dovrebbero essere sviluppate strutture nelle quali i lavoratori potessero condividere i profitti. L’intervento dell’immaginazione e il risveglio dell’anima richiedono che il lavoro venga inteso come contributo alla creatività e al progresso di una comunità via via più ampia. Ditte o società che maturano lauti introiti dovrebbero assistere poveri ed emarginati. Il raggiungimento di condizioni di lavoro ottimali dovrebbe diventare una priorità. Inoltre, bisognerebbe affrontare con domande scomode ma oneste altri interrogativi. Per esempio, il lavoro che produce prodotti che danneggiano i consumatori o la natura dovrebbe essere criticato e sottoposto a modifiche.
Karl Marx è stato uno dei più possenti e profetici analisti del lavoro, e ha dimostrato come esso possa alienare l’individuo dalla sua natura e potenzialità. Ci sono particolari mestieri che possono ottundere e oscurare la presenza umana. Alcune delle più profetiche, acute e illuminati riflessioni critiche del nostro secolo provengono proprio da questa tradizione. La scuola della teoria critica ha sviluppato un’interpretazione acuta della società industriale, rivelando come la storia e la società influenzino interiormente la struttura dell’identità umana. La natura del lavoro e il consumismo sviliscono e opprimo il sé. La teoria critica, identificando la sottigliezza e il divagare di queste forze alienanti, e penetrando le variopinte ma fittizie immagini superficiali che celano il quieto soffocamento della personalità, ha offerto un grande contributo alla guarigione dell’anima.
La società contemporanea si prostra dinnanzi all’altare del funzionalismo. Concetti come processo, metodo, modello e progetto si sono infiltrati nel nostro linguaggio, e determinano come descrivere la nostra relazione con il mondo. La guarigione dell’anima implica una riscoperta della diversità; ciò risveglierebbe le sensazioni di mistero, possibilità e compassione. In tal modo la forza della funzione lobotomizzante diminuirebbe, e le nostre attività sarebbero permeate da una nuova vitalità. Volendo ricorrere a termini filosofici, l’essere potrebbe trovare espressione nell’agire. La spiritualità celtica può apportare uno splendido contributo alla riscoperta della percezione della Diversità. Nella sua metafisica dell’amicizia, c’è un profondo riconoscimento dell’Alterità della natura, del sé e del divino. Nella nostra cultura ragionevole e condizionata c’è però il rischio che tale patrimonio diventi un altro programma spirituale esotico e alla moda.
Nel mondo della negatività del lavoro, in cui siamo controllati, dove il potere prevale e non siamo che dei semplici funzionari, tutto è determinato dall’etica della competizione. Nel mondo della creatività del lavoro, dove possiamo esprimere i nostri talenti, non c’è affatto competizione. L’anima trasfigura il bisogno di competizione. Per contro, il mondo della quantità ne è costantemente ossessionato: se io ho meno, significa che tu hai di più. Ma nel mondo dell’anima, le cose stanno diversamente: più io ho, più tutti quanti hanno. Il ritmo dell’anima stupisce per la sua capacità di arricchirci indefinitamente.
Tratto da « Anam Ċara », traduzione in corso per Mondadori. ©. Bozze non corrette né editate. Tutti i diritti riservati. Riproduzione vietata.